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Questo excursus prende avvio dal `68 con il suo proliferare di tic linguistici. Una visione del mondo che, nella disanima di La Porta, si configura per alcune caratteristiche, ciascuna associata a un luogo comune. C`è l`ansia di essere rassicurati a oltranza («Tutto bene?», «Tutto a posto?», «Non c`è problema», quando invece i problemi ci sono eccome); l`esibita indifferenza verso gli altri («E un problema tuo», come recita il titolo del libro, o «Non me ne può fregare di meno»); l`immunità concessa dall`ironia («Guarda che ero ironico»); la sete di novità eccitanti per alleviare la noia in cui siamo immersi («Come stai?» sostituito dal più incalzante «E allora?») e l`atteggiamento sperimentale e superficiale verso l`esistenza racchiuso nelle parole «tipo che».
Questo librettino manca di profondità, non insegna, ma almeno divertisse, restano solo da sfogliare le vignette di media qualità.
La massa informe dei pigri osservatori del reale appare ancora più lontana e puntiforme se la si guarda dopo aver letto l'olimpico e siderale Filippo La Porta. Un libro che merita più di una lettura, e vi assicuro, sono proprio pochi di questi tempi.
Recensioni
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"Lo stile è l'uomo", scriveva Leclerc de Buffon condensando in una massima l'assunto settecentesco in base al quale il linguaggio è specchio della forza interna dello spirito di un popolo. "Lo stile è l'uomo", ripete Filippo La Porta in apertura a questo saggio in cui alcuni dei tic linguistici più inflazionati del nostro tempo ("un attimino", "non c'è problema", "non fare il moralista", "assolutamente", "quant'altro"...) diventano grimaldelli ermeneutici utili a un'indagine socio-morale sui costumi degli italiani, sempre più omologati dall'imperativo di essere à la page non solo per mode e maniere, ma anche per opinioni, gusti, espressioni.
Analisi linguistica e civile sono, secondo La Porta, come già in Pasolini, due dati inestricabili: il luogo comune sembra essere divenuto l'unico modo efficace per esprimersi in una società ideologica e massificata, per sfiorare la superficie della realtà senza mai analizzarla in profondo. Ponendosi nel solco di una tradizione morale che pure "nel nostro paese, com'è noto, non esiste", l'autore procede a un'indagine linguistica che è anche analisi antropologica e in ultima istanza requisitoria morale, dal momento che il linguaggio in origine strumento di unione civile, di realizzazione dell'ideale di bienséance rischia oggi di diventare mezzo di sopraffazione e falsificazione dei rapporti sociali. Se trent'anni fa Pasolini denunciava l'annullamento di ogni differenza linguistica e sociale in direzione borghesizzante, oggi La Porta deve aggiungere a quell'indagine una nota negativa: l'omologazione, infatti, non produce solo una massa amorfa e manovrabile perché non pensante, produce la confusione tra trash e intelligente, tra kitsch e bello, nel segno di una totale indistinzione di gusti e maniere. Il culto dell'apparenza, la civiltà della chiacchiera e della socievolezza convenzionale, brillantemente tratteggiate dall'autore, stanno producendo la scomparsa dei fatti a favore di costruzioni linguistiche effimere, controllabili e sempre reversibili, "quintessenza di un'italianità adattativa e trasformista" per la quale il giudizio morale sui fatti è eludibile perché non rilevante, anzi intollerabile perché tetro e censorio.
Qualche riflessione in più meritano, a questo proposito, le pagine dedicate a quel "Guarda che ero ironico" che è diventata la mossa snobistica di chi cerca di riscattare e autoassolvere una battuta poco riuscita con "una patente di ironia generosamente concessa a posteriori". Se per Hegel l'ironia era una strategia linguistica e filosofica di fondamentale importanza perché si saldava con l'etica, perché permetteva di recuperare contrastivamente un valore positivo ed edificante per l'umanità, oggi la sua funzione è di garantire l'impunità, di offrire un alibi al cattivo gusto: non si tratta più, nota La Porta, "della sublime ironia romantica, che era riconoscimento dei limiti umani (
), né di quell'atteggiamento tipicamente novecentesco (da Mann a Musil) che stende in modo inquietante la sua micidiale, corrosiva ironia sulle certezze e sui fondamenti della ragione". Persa la sua portata critica e addirittura eversiva, l'ironia si è ridotta a risata vuota, battuta di chi ritiene che "moralista" significhi "noioso", di chi ha caro sopra ogni cosa il difendersi "preventivamente da obiezioni forti, da dissensi troppo pronunciati".
La lingua manifesta così la sua falsa coscienza, l'abdicazione al suo compito primo, quello di esplorare il reale in tutte le sue pieghe, e si trasforma in formulario apotropaico e up to date, simpatico e impudente insieme, che denuncia inesorabilmente la pigrizia del pensiero del parlante.
Chiara Fenoglio
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